La luce di Sinisa: il patto del cuore fra Bologna e Mihajlovic
LA REPUBBLICA – ROMAGNOLI – Questa non è una storia da film. La sua verità è nei buchi di sceneggiatura, nel lato oscuro e non raccontabile, fatto di fatica, dolore, paura. Nella parte visibile ci sono continui colpi di scena, tutti elettrizzanti: l’allenatore rivela il male e lo sfida, ritorna in campo a sorpresa, si assenta ma dirige da lontano e vince, i giocatori gli fanno la serenata, la città lo ama, prega per lui. La fine non è nota. Soprattutto non lo sono le notti solitarie di Sinisa Mihajlovic che, per rispetto della sua condizione, nessuno che non la condivida può permettersi di immaginare. Oggi il Bologna, contro la Roma, torna a giocare nel proprio stadio, senza di lui. Comunque vada, sarà un capitolo, ma la trama è un accidente, sono i personaggi a produrla. Qui ce ne sono tre: l’allenatore, la squadra e la città. Li lega un patto: lui ha dato alle altre la salvezza nella stagione scorsa, loro provano a restituirgliela adesso. «We are one» è lo slogan che hanno scelto, ma bisogna scindere le tre anime per capirle.
Bologna United – Tutti i calciatori sono orfani di lusso e di ritorno. Abbandonano la famiglia e cercano un’altra guida per non perdersi. Quelli del Bologna non fanno eccezione. Mbaye è stato adottato dal suo agente. Skov Olsen ha 19 anni e ci ha pensato settimane prima di lasciare casa di mamma in Danimarca. Destro ha avuto a disposizione per tutto il ritiro un paterno ex pugile che lo aiutava a ritrovarsi. Sull’orlo della retrocessione la squadra dello scorso anno ha incrociato Mihajlovic e gli si è consegnata. I nuovi sono venuti per lui. Non ha disegnato uno schema, ma una personalità: 4-2-3-coraggio, diventata la parola chiave ben prima della malattia. Al suo arrivo i giocatori hanno fatto un passo indietro, un’ulteriore rinuncia al protagonismo di cui il loro mestiere si nutre. La maglia rossoblù più venduta non ha sulla schiena il nome di un calciatore ma, caso inedito, quello dell’allenatore e il numero 11, che allude agli undici leoni, da lui trasformati, gattini che erano, e ammaestrati. Alla vigilia delle partite i tifosi non si chiedono più se giocherà Palacio o Santander, ma se Mihajlovic ci sarà o no. La sua ricomparsa alla prima di Verona è stato un colpo a effetto. L’apparizione di quel padre elettivo smagrito e con il cranio nascosto sotto un cappello ha disorientato i ragazzi, picconato le pareti insonorizzate degli spogliatoi, spento la musica nelle cuffiette, lasciando entrare il clamore della vita. A Mihajlovic pare abbia fatto addirittura bene, il corpo avrebbe risposto, nuova linfa nel sangue, ma quella è la sua natura: nei picchi si ritrova e dà il meglio di sé. Per la squadra ha significato incontrare un avversario inatteso: la realtà. Come di fronte a una situazione di svantaggio, ha avuto bisogno di tempo per risistemarsi. Il gruppo, per un riflesso pavloviano, risponde al comando di un’unica voce, quella di Sinisa, la riconosce quando sale di tono, la sente ancor meglio se proviene da un cellulare, amplificata nel silenzio di uno spogliatoio, all’intervallo. Le teste chine e gli occhi chiusi a immaginare il mister com’era: inossidabile. Ancor più temibile ora, smaterializzato e lontano, eppure capace di vedere ogni cosa. Una rimonta allude inevitabilmente alla possibilità di una guarigione, ma non è alla squadra che la gente chiede adesso il miracolo.
Bruci la città – Sullo stadio incombe. Una curva prende il suo nome. Alzi lo sguardo dalla tribuna e la vedi: la basilica della Madonna di San Luca. Esiste un legame storico tra la città e quella chiesa, raggiungibile attraverso 489 scalini protetti da un portico, ma non dalla fatica dell’ascesa. Chiunque, anche non credente, viva o abbia vissuto a Bologna è salito a piedi fin là almeno una volta: per invocare o scongiurare una gravidanza, per auspicare il superamento di un esame o per ringraziare perché era accaduto. Sempre, ragioni individuali. La marcia di gruppo è un’altra cosa, un’immagine destinata a restare. Nella salita del luglio scorso si poteva notare una scansione visuale forte: la famiglia slava, scolpita nella sua fisicità, in testa a tirare. Dietro, i tifosi delle curve. A chiudere il gruppone: gli amarell, quelli del bar, Bologna in cerca, più ancora che di un santo a cui votarsi, di un voto da proporgli. Sprofondata del vuoto ideologico, da anni priva della diarchia dialettica tra Comune e diocesi, la città soffre di un’assenza di desiderio, le manca una missione. Non è più laboratorio, non fa la storia. La sua sazietà è relativa, la disperazione ordinaria. Cercava una passione per spingerla su quella scalinata, l’ha trovata: Sinisa c’era. Nel precedente di Tito Vilanova, allenatore del Barcellona, il rapporto era molto diverso. Lui era parte della storia del club: aveva esordito come calciatore, allenato la squadra B, fatto il vice a Guardiola. Alla sua nomina sulla panchina principale il ds Zubizarreta disse: «Rappresenta il Barcellona». Prima di ammalarsi, vinse la Liga. Mihajlovic non ha mai giocato a Bologna, da allenatore esordi male, ha restituito tutto con gli interessi dieci anni dopo, ma era solo una salvezza, per quanto entusiasmante, il trofeo minore di una breve stagione che era pronto a chiudere. Invece. Adesso è il patrono laico. Dopo San Luca sono fiorite leggende che si tramandano con il telefono senza fili, indistinguibili dalle verità: «E’ andato a trovarlo Mancini», «C’è stato monsignor Zuppi», «Lo ha chiamato il Papa», «Gli hanno portato un bandierone con cento firme e auguri», «Han mandato i tortellini dalla festa dell’Unità». Le radio locali hanno microfoni aperti soltanto per parlare di lui, bruciando d’adorazione. Qualcuno gli ha dedicato una poesia intitolata “Guerriero“, che termina così: «Domani sarai sempre più condottiero/ ogni giorno che passa dal traguardo/ ogni volta che un uomo rossoblu/ incrocia il tuo sguardo/ in tv, in rete o in qualsiasi testata/ Bologna di te si è innamorata». Al punto da volere una seconda volta, sabato prossimo, di nuovo in marcia verso la basilica, di nuovo per lui: Sinisa ci sarà, in spirito.
Duro, ma con gioia – San Luca non è Medjugorje. Mihajlovic ci andò nel maggio 2009 e quando gli chiesero che cosa avesse provato premise inevitabilmente: «Sono un duro, ma…». Poi: «Ho pianto quattro o cinque volte, non so perché, mi veniva naturale, mi sono sentito libero, ho provato una sensazione strana». Si era avvicinato al cattolicesimo da poco. Quando era al Milan frequentò una chiesa vicino al campo di allenamento, fu visto spiegare il vangelo alle 7 e 30 del mattino ai bambini di Solbiate. Disse: «Le persone cambiano». «Sono un duro, ma…», restava il fondamento sul quale andava edificando un altro carattere. Da giovane, per sua stessa ammissione, procedeva per sottrazione, voleva nemici, fedele al luogo comune per cui averne molti dà molto onore. Da adulto ha iniziato a capire la forza dell’addizione. Nei momenti difficili l’energia di un uomo è data da una somma. Si vive e ancor più si sopravvive anche per gli altri, anche grazie agli altri. I suoi penati erano familiari. Al di sopra di tutti, la figura del padre, morto a 65 anni mentre lui era lontano: «Darei qualsiasi possibile vittoria di qui in avanti pur di riabbracciarlo». La madre, che non ha mai smesso di guardarlo come un bambino, quindi scorgendo una fragilità non intuibile per nessun altro. La moglie, le figlie. Trovarsi un esercito alle spalle non era nei piani: gli allenatori hanno un pugno d’uomini appena, non tutti affidabili. Ci ha pensato il potere del caso. Mihajlovic non doveva essere qui, ora. A fine campionato scorso era stato schietto: «Ho saldato il debito, sono libero». Aveva preso tempo per guardarsi intorno, cercare altre piazze, grossi ingaggi, un mercato di stelle. Aveva quasi firmato per la Roma, avversaria di oggi. Lo fermò una stortura del calcio italiano: l’avversione dei tifosi, l’accusa di lazialità. Fosse andato, la porta girevole lo avrebbe probabilmente portato a rescindere il contratto, come fece Prandelli quando gli si ammalò la moglie. Roma non gli doveva niente e in genere poco concede e meno si commuove. Nel momento sbagliato, il destino lo ha trovato al posto giusto, una Samarcanda al contrario, dove stare fermo per provare a salvarsi. E fermo resta, nella sua stanza attrezzata all’ospedale Sant’Orsola. Qualcuno ha perfino criticato la “serenata” a sorpresa dei suoi calciatori dopo la vittoria di domenica scorsa: «E gli altri malati?». Abbiamo provato a chiederlo, con discrezione. Riferiscono di sentimenti contrastanti. Li lusinga il fermento, l’attenzione per una condizione che li riguarda. Li preoccupa la banalizzazione, il mito del guerriero che fa da scudo all’ineluttabilità della paura, messa in ombra come un tempo si metteva la malattia stessa. Sottolineano che per un allenatore a cui si mantiene con lealtà il posto, tanti lo perdono, discriminati e dimenticati, anche nel settore pubblico. Sanno che la luce accesa nella stanza di Mihajlovic illumina tutti. Simbolico il banco per le donazioni all’Associazione italiana contro le leucemie accanto al reparto: in cambio ti propone una sciarpa rossoblù, quella che tutti vogliono rivedere al collo di Sinisa, in panchina. Stringe il nodo tra un uomo, una squadra, una città. E più facile che una persona ne salvi molte, ma è esemplare se molti si impegnano per salvarne una.