La separazione non consensuale dalla certezza De Rossi
LA REPUBBLICA – DI PAOLO – Ciò che non capisce chi non riesce a capire è che non si tratta solo di un calciatore. Uno che la vede da fuori minimizza: la carriera di uno sportivo è corta, e Daniele De Rossi sta per compiere trentasei anni. Ho la sua stessa età, sorrido, ci penso. Uno che la vede in chiave pragmatica rilancia: ha quasi trentasei anni, ma avrebbe potuto giocare un altro anno o due. Uno che la vede come tifoso polemico estremizza: gli americani, la società non ha tatto né rispetto per i grandi, per i miti (il coro più intenso e reiterato, ieri sera all’Olimpico sotto la pioggia, era “Pallotta pezzo di m.”). Uno che la vede nostalgicamente rimpiange: mai più nessuno come lui (o come loro, Daniele e Francesco). Ma solo chi la vede poeticamente può capire. Solo chi la vede poeticamente — forse nell’unico modo sensato e possibile — può capire. E non può minimizzare, non può limitarsi a vederla pragmaticamente, non può mettersi solo a inveire contro la società, non può soltanto rimpiangere. Sa che l’addio — o per meglio dire, il doloroso arrivederci di DDR — è una “questione privata” che si moltiplica per centinaia di migliaia di romanisti.
Qualcosa cioè che non riguarda esclusivamente il calcio, ma l’esistenza di ciascuno: e come questa, sul campo da gioco, si riflette, si estende, in qualche modo si completa. Di sicuro, si intensifica. Per questo è difficile, anzi impossibile, scindere — per un romanista autentico, per uno che sia stato davvero romano e romanista negli ultimi diciotto anni — la propria vita, le stagioni della propria vita, dalla presenza di Daniele De Rossi. Era lì, è stato lì: con la sua aria di ragazzo solido, cresciuto in fretta, serio: di una serietà che è rigore, carisma, empatia, coerenza. Una specie di imprevisto “maestro giovane”. Se Totti ha unito nel culto tre o forse quattro generazioni, Daniele De Rossi ne ha costruita una nuova, l’ha compattata, l’ha allenata, l’ha abituata alla fedeltà. Il ventunesimo secolo ha in sostanza gli anni della sua storia con la stessa maglia; il tempo della sua militanza romanista è maggiorenne. È stato un viaggio lungo, intenso, ha scritto lui nella sua lettera ai tifosi. Seicentosedici volte. E anche così è stato breve. Perciò il congedo è inaccettabile, perciò è doloroso. E chi la vede da fuori non può capire. Che stavolta non c’è solo il “maledetto tempo” di mezzo — quello evocato da Totti nel suo addio due anni fa. C’è di mezzo uno strappo, che si poteva evitare. C’è di mezzo una separazione non consensuale. C’è di mezzo la sensazione di un’ingiustizia. E c’è di mezzo l’indistricabile — per chi tifa, per chi “crede” — nodo tra i giorni qualunque, i giorni incerti, e la squadra. E dunque quella certezza: che non è il risultato, naturalmente, ma quella presenza, quel ragazzo — che è lì, che sta per entrare, che entra, o dalla panchina incoraggia, conforta, motiva. La certezza Daniele De Rossi.