Il campione che non sa cosa fare e la società indecisa su tutto
LA REPUBBLICA – SISTI – Mai come domani, quando andrà in vacanza, per Totti partire sarà un po’ come morire. Anche se lascia niente. Quello che dirà oggi l’avrà già pensato mille volte, forse se lo sarà detto davanti allo specchio prima di andare a dormire sonni inquieti. Totti e la Roma non saranno più le due metà di una sola mela. Francesco non sapeva cosa fare. Ma quel che è peggio è che neppure la società sa cosa fare, di sé stessa, dei suoi personaggi, del patrimonio emotivo della sua gente, che conta zero o quasi. La Roma sta solo continuando a togliere pancia, stomaco e cuore a un corpo che si vorrebbe nuovo, trasformato, più moderno, efficiente, elettrico. Ma in realtà quel che sta prendendo forma dietro l’epurazione di massa delle bandiere, evidentemente meditata, non è affatto un corpo alla Frankenstein vitalizzato dalla luce della folgore. Bensì un corpo da vendere, viene il sospetto, agile e mercificabile senza intoppi romantici, che una realtà calcistica con cui affrontare il futuro.
Nell’addio di Totti c’è anche questo: che il mistero non è affatto un mistero, che forse le proposte che gli sono state fatte non avevano abbastanza consistenza per essere ac Il campione indeciso e la società senza timone cettate. A Totti era stata data la poltrona del direttore tecnico, figura sino a ieri inesistente. Legittimo sospettare che potesse trattarsi dell’ennesimo ruolo fantasma. Dal canto suo Totti non s’è mai districato con disinvoltura dopo aver superato, con immane fatica, quel fatidico giorno in cui decise di smettere tra le lacrime. Non ha mai dato la sensazione di essersi scrollato di dosso la scimmia dell’angoscia di aver “smesso” e in fondo di sentirsi ancora giovane, ancora sul campo.
Quando quel suo sguardo crepuscolare guardava gli ex compagni dalla tribuna, vincere o perdere, in casa o fuori, al freddo o in maglietta, i suoi erano gli occhi di un calciatore vero, non di un dirigente in erba. Però è anche vero che quando ha cercato di alzare la voce — e davanti alla Romadi quest’anno ci voleva poco per avvertire il viscerale bisogno di farsi sentire — non ha trovato sponde. oggi dirà la sua. I suoi perché saranno nero su bianco. Lo sfogo, avverrà in un contesto ben diverso da Trigoria, luogo di culto in Francesco entrò per la prima volta trent’anni fa, da tredicenne. Non a Trigoria ma nel Salone d’Onore del Coni. Vorrà sentirsi, si presume, quanto più lontano possibile dal proprio passato, inacidito dal presente, e possibilmente quanto più vicino a quello stadio dentro il quale, proprio il 17 giugno di 18 anni fa, segnò la rete dell’1-0 al Parma nell’atto conclusivo dello scudetto del 2001. Anima, non business. Preferisce un’istituzione super partes a un’istituzione che lui, dalla postazione di miglior giocatore italiano di tutti i tempi, ha contribuito a rendere tale segnando una miseria: appena 307 reti. Un motivo ci sarà.
Non è corretto supporre che Totti potesse da solo cambiare i destini di quel “corpo elettrico” chiamato Roma, sfibrato dagli stessi che dovrebbero beneficiarne, adesso e domani. Ma certo il timore che l’offerta fatta a Totti fosse di continuare, dopo aver fatto finte per mestiere, a fare finta di essere qualcosa di importante senza esserlo, c’è. E non getta luce sul buio della Roma. Non può. Forse Totti potrebbe addirittura trovare consolazione nel finale e dirsi senza peli sulla lingua: «Meglio darsela a gambe adesso». Non è più quella Roma. La sua Roma. E non lo sarà mai più. A far finta (di essere qualcosa di credibile) sembrerebbe la società. Non lui. Diteci che stiamo sbagliando.