Monchi accerchiato, la solitudine del ds che medita la fuga
REPUBBLICA – PINCI – I minuti finali di Roma-Milan non li ha passati al suo posto allo stadio: troppi sentimenti in ballo e troppa rabbia in corpo. Chissà se era capitato mai a Ramón Rodriguez Verdejo, per tutti soltanto Monchi, il direttore sportivo cui la Roma aveva affidato la sua rinascita due anni fa, l’uomo che guardò negli occhi Totti per annunciargli che la sua storia con la Roma era finita. Oggi è un uomo alle corde: circolano in rete alcune foto che lo ritraggono domenica sera, all’intervallo, nascosto nella saletta lounge dell’Olimpico con la testa tra le mani. A pezzi. Dicono che in realtà fosse sofferente, forse persino arrabbiato per la contestazione della Curva Sud, svuotata dai tifosi in polemica dopo l’1-7 di Firenze. Ma probabilmente anche per la valanga di critiche che da settembre si abbattono su di lui a ogni sconfitta. Ha la responsabilità di un mercato che non sta producendo risultati: su Nzonzi, Pastore e Kluivert ha scommesso quasi 70 milioni ricevendo un contributo trascurabile. E a gennaio non è riuscito a comprare chicchessia. Ma la “colpa” che gli viene imputata è altra: la difesa ostinata dell’allenatore Eusebio Di Francesco, sotto accusa in città per i risultati e non troppo amato da Pallotta. Il ds spagnolo ha sempre rifiutato di sostituirlo. E anzi, di fronte a chi, intorno a lui, aveva parere contrario, ha offerto la propria testa in pegno. L’allenatore ha sempre accettato le sue scelte, se dovrà mandarlo via andrà via anche lui, è la linea del dirigente venuto da Siviglia. Lunedì ci è anche tornato per una missione lampo: questioni private, approfittando del riposo concesso alla squadra. Anche un modo per non ripensare a domenica sera, quando qualcosa lo ha portato a lasciare il posto allo stadio poco prima del 90’. Per non guardare. Alla fine di una partita come quella col Milan, che la Roma ha quasi dominato, doveva averlo atterrito il terrore di un’immeritata sconfitta che lo avrebbe costretto a prendere una decisione contro le proprie idee. Una cosa è chiara: lui vuole arrivare alla fine della stagione con Eusebio Di Francesco (anche se non può essere sicuro di riuscirci), cui sa di dovere la valorizzazione di un patrimonio tecnico che va da Zaniolo a Ünder, da Pellegrini a Karsdorp, che pareva perso. Le valutazioni a fine stagione, però, riguarderanno anche lo stesso Monchi. Che passerà, come tutti, per la mannaia del giudizio del presidente Pallotta. Ma anche delle proprie valutazioni. Perché forse quella delusione provata verso chi contestava lui e i singoli calciatori – con accento su Kolarov, uno dei suoi “capitani” – ha lasciato qualche cicatrice più profonda della voglia di «portare un trofeo a Roma», missione che si era dato in tempi non sospetti. E senza la qualificazione alla Champions della prossima stagione, è davvero difficile che le strade del ds spagnolo e della Roma continuino a incrociarsi. In Inghilterra giurano lo voglia l’Arsenal, dove c’è già Emery, il “suo” allenatore ai tempi di Siviglia. Una casa che Roma non è mai riuscita a sostituire nel cuore di Monchi.