Totti: “Niente Pallone d’Oro? E allora vinco l’Oscar”
GAZZETTA DELLO SPORT – CECCHINI – L’ultima notte, in fondo, non è ancora passata. Lo capisci quando Francesco Totti, intorno alle 10.30 alza gli occhi e vede tre signore di mezza età, con la divisa da cuoche, schierarsi sulle scale della scuola e cominciare a cantare: «Un capitano, c’è solo un capitano». Un mezzo sorriso imbarazzato, la gola serrata. Non vi fermate alla superficie. Questo, per il più grande giocatore della storia della Roma, non è solo un giorno di riprese del documentario sulla sua vita – il cui titolo sarà appunto «L’ultima notte» – è l’immersione struggente nel suo tempo perduto, perimetrato da quelle strade che lo hanno visto bambino. Siamo in Via Vetulonia, davanti alla casa in cui è cresciuto, ad un battito di cuore appena dalla elementare «Manzoni», il set di oggi.
Il suo quartiere
Abbracci, emozione, occhi lucidi. Francesco ha il passo veloce. Nella scuola, intanto, regna quasi un silenzio irreale, di cui più tardi scopriremo la ragione. Lui entra dentro in un’aula adibita a camerino, e mentre abbandona la prima maglia grigia per indossarne un’altra nera, sussurra: «Stanotte non riuscivo a dormire per l’emozione. Erano quasi trent’anni che non tornavo qui. Vede? – e dalla finestra indica un portone – Quella era casa mia. Bastava che uscissi alle 8.27 per arrivare puntuale». Stavolta, però, tutto il quartiere è stato virtualmente bloccato. Anche le auto sono state fatte sgomberare per lasciare il posto a vetture dell’altro ieri. In Via Vetulonia i negozi sono gli stessi dei suoi tempi. La parrucchieria, l’officina, il bar, la tabaccheria. In tanti si mettono sulla soglia e aspettano, «perché tanto più tardi passa». Avranno ragione. Sarà lui che, nelle tante pause delle riprese, va a riabbracciare i vecchi amici che ne approfittano per far fotografare figli e nipoti. «Ammazza, sei sempre bello», dicono le ragazze di un tempo. I loro padri sono lì accanto. «France’, te ricordi?». Sì, ricorda e tratta con deferenza un nugolo di teste bianche che allora avevano i suoi quarant’anni. Se a noi è vietato farlo, neppure nessuno di loro nomina la Roma.
Ciak si gioca
Ogni tanto il regista lo richiama sul set. Una passeggiata, una sosta davanti ad un murale che lo raffigura finché, dal cancello della scuola, sbuca fuori un pallone sbadato. A calciarlo è un bambino biondo di 8 anni, Massimo, che pare il sosia di Francesco in miniatura. A mangiarlo con gli occhi sono i due genitori, Fabrizio e Desiré Annibali, emozionatissimi per il fatto che sarà loro figlio a impersonare Totti bambino. «Siamo sempre stati malati di Roma», racconta il papà. La mamma conferma e rivela: «Pensi che il giorno del nostro primo appuntamento Fabrizio mi disse: “Esco solo se vince la Roma perché è la mia prima donna”». Intanto Francesco palleggia con Massimo spiegandogli come calciare. L’impressione è che si divertano un sacco e a confermarcelo è la pausa pranzo. Petto di pollo veloce e poi tutti sul campo della Fortitudo, a pochi metri. «Qui ho cominciato a giocare», dice Totti. E non ha ancora finito perché con lo staff organizza una sfida che termina – ovvio – con un cucchiaio. Ma si fa tardi e c’è da girare le «paperelle», una specie di tiro a bersaglio con la palla in cui Francesco era (è) bravissimo. Uno spettacolo.
Caccia all’Oscar
Col passare delle ore, arrivano il fratello Riccardo, i cugini, sua cognata Silvia. Poi appare anche sua moglie Ilary coi tre figli. Coccole per tutti, clima rilassato, anche perché arriva la pizza con le patate che piace a Francesco. «Strano, no? – ci dice —. Non ho mai vinto il Pallone d’Oro e magari vinco l’Oscar». Già, perché il documentario potrebbe essere presentato nel 2020 al Festival di Berlino come trampolino per Hollywood. Ma meglio non correre, anche perché c’è altro da fare.Dalle finestre cresce un coro: «Vogliamo Totti». Sono gli 850 bambini della scuola, fin qui muti. «Perché avevamo detto – rivela una maestra – che se avessero fatto silenzio sarebbe venuto a trovarli». Il momento è arrivato. Francesco passa per tutti i piani e raccoglie baci, lacrime e disegni. È il caos. La «security» lo spinge fuori, ma lui chiede di aspettare: «Voglio vedere la mia classe». Terzo piano. Eccola. «Il mio banco era quello vicino alla finestra». Si siede commosso. Una maestra gli dice: «Io c’ero quando tu stavi qui, ma ora vado in pensione». «Io ci sono già andato», replica Totti con un sorriso. «Ma poi sussurra malinconico: «Pagherei oro per tornare a quegli anni». Ma ha vinto il tempo, come sempre. Lo ha pensato anche il giorno prima, quando, girando all’Olimpico e si è rimesso la maglia della Roma. «Un’emozione, indossarla è sempre bellissimo – dice mentre ci saluta e lascia la scuola per infilarsi in macchina tra due ali di folla –. Avrei voluto avere dieci anni in meno. Anzi no, me ne basterebbero solo cinque per fare la differenza». E il tramonto che ci avvolge, adesso, sembra un po’ triste.