IL TEMPO – MENGHI – Come un cerchio che non sa chiudersi mai, le storie incompiute degli allenatori della Roma si ripetono ciclicamente in cerca di un finale diverso. Ma questo giro della morte finisce per essere una condanna senza tempo da cui nessuno esce vittorioso. Sono saltati 9 tecnici in 9 anni e mezzo, dal Ranieri edizione 2009-2011 al Ranieri di oggi si sono già rivisti Zeman e Spalletti (oltre ai nuovi Luis Enrique, Garcia e il traghettatore Andreazzoli), e sono quindi 3 i grandi ritorni su cui ha scommesso la società americana, evidentemente affezionata al 2.0.
Ma il ripescaggio dal passato finora non ha funzionato, la magia di Zemanlandia era svanita e con la squadra all’8° posto in classifica il boemo salutava dopo soli 7 mesi, mentre il toscano ora all’Inter non è sopravvissuto alla querelle Totti e ai «topini» di Trigoria. Di Francesco ha tenuto duro per 633 giorni, tanto è passato dalla firma con la squadra con cui era stato, nel 2001, campione d’Italia fino all’ultimo allenamento diretto ieri e chiuso con un triste saluto ai suoi giocatori, uno per uno. Compreso il suo «vice» in campo, De Rossi, che nel prendersi la responsabilità di parlare dalla pancia del Do Dragao ha provato a fare da scudo all’abruzzese, «una persona seria, colui che ha riportato dopo tanto tempo la Romain semifinale di Champions».
Quel dolce ricordo non è bastato a salvarlo, i torti arbitrali subiti ad Oporto hanno contribuito, a modo loro, a riportare alla mente il sogno infranto col Liverpool, ma un vecchio traguardo raggiunto non può essere un eterno passepartout.
La porta giallorossa si è chiusa alle spalle di Di Francesco, a meno di un anno di distanza da quella storica impresa che nessuno potrà togliergli. Se non ce l’ha fatta chi ha reso la Roma grande tra le grandi chi potrà diventare il Ferguson romanista tanto cercato da Pallotta o il Capello longevo e vincente del quinquennio 1999-2004? Non c’è progetto che tenga, non c’è allenatore che resista. L’ex Sassuolo aveva alzato l’asticella col 3° posto e la semifinale europea, guadagnandosi il rinnovo, ma la seconda stagione l’ha vissuta con le ombre dietro la panchina e la pressione addosso.
Era riuscito a rialzarsi tutte le volte, a braccetto con Monchi e Totti, aveva superato persino la parentesi nera di Coppa Italia con la Fiorentina, uno dei punti più bassi della storia giallorossa, il polo opposto rispetto al sogno Champions dell’anno prima, ma è uscito scosso e sconfitto da Oporto. Paga per le prestazioni altalenanti, la difesa che fa acqua, il 4-3-3 e i suoi simili, il 5° posto in campionato, le 23 sconfitte totali (46 le vittorie e 18 i pareggi), l’umiliazione del derby e l’eliminazione ingiusta col Porto.
Non ce l’ha fatta a reggere fino alla fine, nonostante manchino appena 12 giornate di Serie A, la sola competizione rimasta alla Roma, che non può permettersi di fallire l’unico obiettivo superstite: la qualificazione alla prossima Champions (ieri i saluti via social di Zaniolo: «Grazie di tutto mister»). Da qui ripartirà Ranieri, che da tifoso ha scelto di tornare a «casa» per aggiustare quello che si è rotto e centrare il traguardo necessario al club per mantenere la sua competitività. Il destino ha voluto che una settimana fa si liberasse l’allenatore romano esonerato dal Fulham, l’uomo giusto a cui affidare una città, una piazza, una squadra che conosce a menadito, e il cerchio è pronto a riaprirsi, sperando in un epilogo diverso.