2 Mar 2019In Breaking News9 Minuti

Roma-Lazio – i molti, doppi ex

INSIDEROMA.COM – MATTEO LUCIANI – A Milano o a Torino negli anni è divenuta pressoché un’abitudine, basti pensare ai casi dei vari Collovati, Pirlo, Seedorf, Helveg, Coco, Guly, Ganz (sponda meneghina) oppure Gabetto, Bruno, Balzaretti, Quagliarella, Ogbonna, Zaza (sponda torinese); a Roma, c’è voluto il serbo Kolarov per tornare a parlare dopo decenni di un calciatore che abbia vestito sia la maglia giallorossa che biancoceleste.

Ne scaturisce che qui, nella città eterna, attraversare il Tevere è cosa rara e malvista. Eppur, non sono stati pochi i casi di ideale passaggio da una sponda all’altra del fiume che bagna la Capitale.

Iniziò Attilio Ferraris, che nel ’34 fu il primo a cambiare casacca all’interno della stessa città. Una pugnalata, inferta oltretutto da chi era stato un simbolo della Roma testaccina e campione del Mondo con l’Italia di Vittorio Pozzo, nonché romanista della primissima ora, passando in giallorosso direttamente da quella Fortitudo che insieme all’Alba e al Roman avevano dato origine al sodalizio nato il 22 luglio 1927. In biancoceleste visse una sola stagione, prima di tornare alla casa madre, da dove era stato inizialmente ceduto per 150.000 lire. Al momento di firmare il contratto, la Roma chiese però di fissare una clausola che avrebbe impedito al giocatore di affrontare il derby, pena il pagamento di 25.000 lire. La Lazio accettò, ma alla prima occasione non si fece scrupoli a pagare, scatenando un curioso siparietto: una tifoseria gridava a Ferraris “venduto, venduto”, l’altra “comprato, comprato”, mentre neanche la sorella Jolanda aveva il coraggio di battergli le mani.

Trent’anni più tardi toccò a Ciccio Cordova compiere lo stesso tragitto, ma qui gli strascichi furono maggiori. Romagnolo di ForlìCordova a Roma era arrivato nell’estate del 1967, con la fama dell’ala giovane e scattante, che però non aveva ancora avuto occasione per dimostrare il proprio valore. Lo face nella capitale, dove in un colpo solo trovò gloria e amore, sposando Simona Marchini, la figlia del presidente Alvaro. Talentuoso ma indolente, capace di portare dalle stalle alle stelle e ritorno uno stadio intero con le sue giocate, in giallorosso alzò un Coppa Italia e indossò anche la fascia di capitano, salvo poi consumare il proprio tradimento nell’estate del ’76, quando mal digerì la decisione di Gaetano Anzalone, intenzionato a cederlo al Verona, accettando viceversa di passare alla Lazio

Il viaggio contrario lo fece invece Selmosson, il Raggio di Luna che illuminò entrambe le facce della capitale. A Roma lo condussero proprio i biancocelesti, che però tre stagioni più tardi dovettero piegarsi al corteggiamento dei rivali cittadini, accettando un assegno 135 milioni di lire. Un cifra quasi fuori mercato. I laziali non la presero affatto bene, mentre i romanisti si sfregarono le mani. Lo svedese, da professionista quale era, non fece torti a nessuno, segnando sia nei derby vissuti su una sponda che in quelli giocati sull’altra.

Un gol dell’ex lo fece anche Fabrizio Di Mauro, che il suo addio alla Roma proprio non lo aveva digerito. Lui che in giallorosso era nato e cresciuto, dopo un scudetto con la Primavera di Giannini, era stato ceduto alla Fiorentina nel 1992, per un corrispettivo di 7 miliardi. In riva all’Arno rimase appena un anno, prima di tornare nel punto in cui il suo viaggio era iniziato, dove però trovò solamente la Lazio ad abbracciarlo. La ripagò con la rete dell’1-1 che annullò l’iniziale vantaggio di Piacentini, in una delle tante stracittadine incastonata nella lunga saga dei segni x d’inizio anni ’90.

Nello stesso periodo nasceva anche la carriera di Roberto Muzzi, al quale la Roma aveva dato l’opportunità di farsi apprezzare e tolto un’aquila dal collo, che al ragazzo di Morena venne intimato di levarsi da Bruno Conti, all’interno degli spogliatoi di Trigoria. Laziale dentro, rimase romanista fuori sino al ’94, per poi farsi apprezzare soprattutto tra Cagliari e Udine, abbracciando la sua squadra del cuore solamente negli ultimi scampoli di carriera.

A fine corsa giunse anche Diego Fuser, ma in casa giallorossa. Acquistato da Franco Sensi nel post scudetto, arrivò con le gambe ormai fiaccate dagli scatti sulla fascia fatti con MilanTorinoParma e soprattutto Lazio, della quale divenne idolo sotto le gestioni ZoffZeman ed Eriksson. Restò appena due stagioni, face altrettanti gol, ai quali qualcuno si rifiutò persino di esultare. Insieme a Fuser, nell’estate dopo il tricolore arrivò anche Sebastiano Siviglia, quotato giovane difensore, reduce dall’ottima stagione con l’Atalanta di Vavassori. Prometteva bene, ma concluse poco. Gli andò meglio in biancoceleste, dove rimase dal 2004 al 2010. Lì del suo passato sembrò non importare nulla a nessuno.

Niente a che vedere con Lionello Manfredonia, finito col diventare l’emblema di una rivalità che mal digerisce i salti da una riva all’altra. Classe indiscussa, libero prima e mediano poi, quando Dino Viola scelse di portarlo in giallorosso fu capace di divedere un’intera curva. Sulle sue spalle gravavano la lunga militanza laziale, il coinvolgimento nel calcioscommesse e persino l’aver vestito la maglia della Juventus. Quando la Sud gli comunicò di averlo accettato, in realtà, a quel verbo fecero capire di aver dato un altro macabro significato. 

Nella lista finiscono anche i nomi di Di BiagioColonneseOrsi e Peruzzi, prodotti del settore giovanile di una squadra, ma poi apprezzati con la maglia dell’altra.

Nel giro delle panchine, invece, spuntano Juan Carlos LorenzoErikssonSpinosiZeman e persino Tommaso Maestrelli, che prima di diventare il “Maestro” aveva vestito la maglia giallorossa. A tutti o quasi il passato è sempre stato rinfacciato. La Roma calcistica sarà anche provinciale, ma sicuramente non le fa difetto la memoria.